Incontrarlo fu come accendere le luci di uno stadio costruito sull’isola di Alicudi.
Abbagliante fino a essere costretti a chiudere gli occhi dal dolore.
Stavo bene in quel periodo con me stessa, ero in equilibrio, è bastato un suo soffio.
Dal suo arrivo, io non ero più io.
Mi dimenticavo anche di dover mangiare.
Ero trasformata, sfigurata e avevo bisogno di bere dell’acqua in continuazione, come quando la febbre è alta.
Ogni giorno era come essere a bordo di un treno ad alta velocità.
Noi eravamo lì sopra, non ci interessava affatto a quale stazione dovessimo scendere.
Vivevamo di parole urlate, di emozioni scritte su pezzetti di coriandoli che lanciavamo in aria e guardavamo, col naso all’insù, ricaderci sul viso.
Le nostre esistenze si fusero scaldate nel crogiolo del vulcano, rendendoci lava, mescolati assieme, amalgamati.
Non dormo più: se dormissi perderei la possibilità di guidare la mia mente dove vorrei che andasse.
Lui è il mio signore, il mio sultano e io la sua bella Sherazade.
Seduti su un grande tappeto persiano, io raccontavo le mie storie, lui le sue.
Ho anche pianto, spesso.
Il pianto è come uno stura-lavandini, tira tutto su così tutto può tornare a scendere.
Mi regalò una stella, assieme abbiamo deciso il suo nome: Erbalucente9.